Li Causi. Gli ultimi bottai di Sicilia
Artifex della botte
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Chi lavora con le sue mani è un lavoratore. |
"Il mio è un mestiere antico
di cui si hanno tracce in tutte le popolazioni mediterranee,
tracce ritrovate sia attraverso fonti scritte,
sia visionando reperti archeologici"
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dal libro: Li Causi. Gli ultimi bottai di Sicilia
Il tempo andato
Non so se sarò in grado di ricordarmi e raccontarti per filo e per segno il mio passato. So però con certezza che se riuscissi a tanto, arriverei ad annoiarti parlandoti di un tempo andato, del mio lavoro e della mia bottega, dei miei sogni e di quanto essi siano intrecciati con la tradizione familiare di generazioni di maestri bottai. Non saprei neanche da che punto cominciare, figurati se ricordo da quale data tutto ebbe inizio!
Sicuramente indossavo ancora i pantaloni corti quando entrai per la prima volta in quella bottega che mio padre non poteva più seguire, come un tempo, per via di quel suo cuore malato che aveva deciso di non assecondarlo più nei suoi progetti, limitandone il divenire. Avrò avuto forse, si o no, otto anni. Ero un fanciullo.
Erano altri tempi quelli e lo erano davvero perché si era costretti a diventare grandi prima del dovuto. Improvvisamente mi ritrovai in mezzo a uomini che avevano quaranta o cinquant’anni più di me, ai quali indicare cosa dovessero fare in quella falegnameria che mi sembrava molto più grande di quanto in realtà fosse. Dovetti crescere in fretta imparando quel mestiere che, come avrai potuto constatare, mi è entrato dentro a tal punto da non saper più distaccarmi da quell’impegno lavorativo, arrivando a ragionare di botti o modellare legni per fare botti anche la domenica.
Ma se insisti sul fatto che debba trovare un preciso punto da dove tutto sia realmente iniziato, forse ti dovrò riportare indietro nel tempo a un giorno di quasi sessant’ anni fa, a un pomeriggio di febbraio. I pantaloni si erano allungati e mi facevano compagnia ben diciotto anni, quelli che, ahimè, non son tornati più. Ricordo che faceva freddo, molto freddo, ma non so se lo fosse davvero o se fossi io a percepirlo così intenso, sta di fatto che l’aria di quel pomeriggio di febbraio era talmente gelida da seccarmi quelle lacrime che mi avevano solcato il viso. Il freddo lo sentivo dentro, tanto che non solo mi aveva gelato le ossa, ma era andato nel profondo arrivando all’anima.
Pur essendo passati degli anni quel freddo lo sento ancora addosso e il ricordo vive ancora nella mia memoria; rammento i volti di tutte le persone che quel giorno mi strinsero la mano, dimostrandomi il loro affetto. Sono immagini nitide quelle che si susseguono quando ripenso a quel pomeriggio di febbraio, quando accompagnai mio padre nell’ultimo suo viaggio. Davanti a me avevo una cassa da morto, quella dove lo avevamo riposto piangendo. Procedeva lenta, portato a spalla dai miei parenti e dai più intimi conoscenti che avevano deciso, in memoria di chi vi era dentro, di caricarsela sulle spalle e di condurla fino al cimitero di Marsala.
Ogni tanto distoglievo lo sguardo da quel legno che galleggiava su quel mare di persone, cercando di consolare mia madre e le mie tre giovani sorelle, Giovanna, Giuseppina e Anna. Quel lento navigare appesantiva il senso di alienazione dei luoghi stessi che stavamo attraversando, alcuni dei quali mi erano più familiari di altri in quanto, essendo stato anch’io fanciullo, avevo giocato lì in mezzo. Tutto mi trasportava oltre quel vissuto, dando spazio a un vuoto immenso che andava, via via, riempiendosi della sconsolata certezza di essere rimasto solo a dover, l’indomani, fronteggiare i bisogni della famiglia e quelli dell’azienda.
Tutte le sicurezze fin lì acquisite si erano dissolte mentre cresceva in me l’angoscia di non avere più vicino a me quella vigile e paterna presenza. Dentro avevo solo l’assordante frastuono del cuore che batteva forte, mentre davanti a me una bara e intorno ad essa una processione che assomigliava a una via crucis. Furono più di duemila le persone che quel giorno percorsero silenziosamente via Isgrò. Non so, ma probabilmente quando il feretro giunse al cimitero vi era ancora gente che scendeva da Porta Trapani, per risalire lungo la strada e raggiungere il luogo della sepoltura. Tutta Marsala si era mossa per rendergli omaggio.
Pensa che perfino le Cantine Pellegrino, quel pomeriggio, interruppero l’attività produttiva per consentire ai dipendenti di partecipare al funerale, ma furono molte anche le botteghe che fecero la stessa cosa; sicuramente vi erano tutti i bottai, e non solo quelli della cooperativa che mio padre aveva fondato con Clemente ed Aleci qualche anno prima, ma tutti quelli di Marsala che, in quegli anni, ne contava oltre seicento. Quell’affetto palpabile che mi circondò, mi commosse e mi gratificò enormemente, facendomi comprendere ancora una volta che Francesco Li Causi, mio padre, non era stato solo un bravo bottaio, ma un grande uomo, meritevole di quel rispetto che lui sapeva insegnare e dimostrare.
Ti posso assicurare che era un uomo forte e vitale, severo sul lavoro, ma sempre disponibile e sorridente. Era una persona apprezzata e ben voluta da collaboratori, amici e conoscenti. Non ti nascondo che mi sorse il dubbio che forse non sarei mai arrivato a ottenerne una così grande considerazione. Un dubbio che non ho mai fugato, ma che mi ha spinto a seguire il suo esempio, e far sì che fosse il tempo a dissiparlo per me. Mi aveva insegnato che la stima e il rispetto degli altri non sono oggetti che si comprano al mercato, ma si guadagnano giorno dopo giorno.
Sapevo che avrei dovuta farne di strada per diventare un maestro e un esempio da emulare, come lui lo era stato per molte di quelle persone che lo stavano accompagnando nel suo ultimo viaggio. Guardavo quel feretro sapendo che dentro vi erano i frammenti di una vita comune.Penso proprio che tutto sia partito da quel pomeriggio di febbraio, proprio da quel legno che ondeggiava su quel mare di gente e dal ricordo vivo di chi mi aveva insegnato a far botti, mostrandomi quale fosse il materiale migliore per contenere un vino pregiato, capace di conservarlo a lungo senza togliergli nulla di ciò che l’uomo aveva fatto in vigna e realizzato in cantina.
Sì, tutto parte da Francesco e dal quel momento quando, ancora bambino, con mente fresca e vivace, ripetevo i rituali che l’apprendistato, al quale mi aveva avviato, imponeva. Sognavo di divenire un magister come lui e, per diventarlo, l’ho seguito, passo passo, fin da quando, dopo la scuola, nel pomeriggio, andavo in bottega ad ascoltare i suoi insegnamenti, imparando a utilizzare la pialla, l’ascia e a far di conto.
Usava parole che rimanevano scolpite nella mia mente, così come mi rimaneva impresso il suo severo giudizio che lo spingeva a rimproverarmi. Arrivava a distruggere il manufatto che avevo appena realizzato se non era conforme allo standard qualitativo della sua bottega, così da perfezionare non solo la mia manualità, ma anche aumentare la mia stessa tenacia. Spesso restavamo oltre l’orario di lavoro, così mi insegnava cose che altri non avrebbero dovuto sapere, quelli che lui riteneva essere i segreti del mestiere del mastro bottaio come il saper disegnar botti, misurarne e calcolarne la capienza.
Segreti che ho custodito come se fossero delle formule magiche che mi divertivo a sfoggiare con chi ne sapeva molto meno di me. Come vedi ne avrei di cose da raccontarti poiché sono infiniti gli aneddoti e i ricordi che mi legano a lui, come quando, con gli occhi lucidi, mi chiese di lasciare la scuola per occuparmi, a tempo pieno, dell’azienda: “ho bisogno di te” mi disse. Poche parole, ma che racchiudevano una profonda tristezza sprigionata dall’impossibilità di poter continuare a fare ciò che aveva sempre fatto nella sua vita: il bottaio. Ricordo bene quel suo sguardo.
A distanza di oltre cinquant’anni trattengo a stento la commozione ripensando all’orgoglio che provai portando a casa il guadagno della settimana di lavoro, dopo aver pagato il salario agli operai. Sì, credo che tutto parta proprio da quel giorno e da quella consapevole certezza che da quel momento avrei dovuto decidere io del mio futuro, anche se tutto era già stato scritto da Francesco, che sapeva bene che io avrei dedicato la mia vita a questo mestiere che amo profondamente. Come sai i ricordi chiamano altri ricordi e, ora che me li hai stimolati, li sento affiorare veloci nella mente, tanto da ricordare perfettamente ogni cosa, come il fatto che, poco dopo la morte di mio padre, decisi di uscire dalla cooperativa dei bottai di cui lui era stato fondatore e segretario.
Scelta dolorosa e contrastata perché era una società importante nella quale lui aveva sempre creduto e dove erano confluiti quasi tutti i bottai della città di Marsala. A questo veniva distribuito il lavoro commissionato dalle cantine vinicole del territorio, fra le quali anche quello delle Cantine Pellegrino, dove aveva avuto sede la nostra originaria bottega. Cantine che avevano sempre mantenuto un rapporto d’esclusiva e fiduciario con mio padre e che, fin che lui era stato in vita, non era mai stato messo in dubbio da nessuno. Io volli mantenere a tutti i costi questo rapporto a dispetto di quegli stessi soci, i più vecchi e scaltri dalla cooperativa, che invece pensavano di poter modificare a pro loro lo stato delle cose, desiderosi come erano di ridistribuire, secondo nuovi criteri e fini personali, il lavoro che giungeva da quella prestigiosa azienda.
Con la certezza di avere dalla mia quel contratto morale esistente e non scritto fra mio padre e le Cantine Pellegrino, mi misi in proprio, consapevole che avrei dovuto lavorare più di quanto avessi fatto fino ad allora. Mi sposai il 23 Aprile. Avevo 24 anni. Una settimana dopo le nozze della minore delle mie sorelle, Anna. Con i proventi del mio lavoro mi costruii la casa, proprio sopra il magazzino in cui avevamo trasferito la bottega, nella splendida zona di Capo Boeo, quella di cui ti parlavo prima, proprio di fronte al mare. Presto arrivarono i figli ma questo non mi frenò, anzi proprio quando loro incominciarono a divenire adolescenti, negli anni Ottanta, decisi di interrompere l’esclusivo rapporto lavorativo che mi legava alle Cantine Pellegrino, per dare nuova linfa vitale all’azienda. Detti avvio ad altre collaborazioni come quella che mi unì alle Cantine Florio e quelle con altre realtà nazionali, fra cui un consistente numero di aziende vitivinicole della Sardegna, dove arrivai a spedire anche 13.000 botti all’anno.
Il successo della mia attività era direttamente collegato alla mia capacità di saper realizzare qualsiasi tipo di recipiente in legno, dimostrando, a chi avesse dei dubbi, di aver ereditato la maestria che connotava i bottai della famiglia Li Causi. La consacrazione del mio saper fare avvenne in occasione della realizzazione di dodici tini da 665 hl commissionatami dalle Cantine Florio. Nessuno a Marsala avrebbe scommesso sulla buona riuscita del lavoro e in particolare un noto bottaio del tempo, “u ‘zu Angelo Coppola”, che a parole era il più scettico di tutti, sostenendo l’impossibilità di poter riempire di vino tini così grandi.
Lo stupore fu grande quando, a lavoro ultimato, i tini furono capaci di sostenere il peso del vino introdotto. Ricordo che fu allora che il mastro bottaio Angelo Coppola riconobbe il suo errore e non mancò, pochi giorni dopo, incontrandomi presso il mercato ittico di Marsala, di dimostrarmi la sua ammirazione, prostrandosi ai miei piedi per pulirmi le scarpe con il suo fazzoletto. Così facendo riconobbe pubblicamente che l’avevo superato in bravura e coraggio e divenni di fatto, da quel momento, il migliore dei bottai di Marsala. Guardandomi indietro oggi, ammetto non solo di aver avuto coraggio, ma anche un po’ d’incoscienza ad accettare quella sfida, poiché non avevo nessuna esperienza in tal senso e nessuno a Marsala aveva mai realizzato tini di tali dimensioni.
Ma il coraggio di affrontare nuove sfide non mi è mai mancato, come non è mai venuta meno la voglia di rendere vivo e appassionante questo mestiere, aspetti caratteriali che sono propri anche di mio figlio Girolamo, che ora lavora qui con me. Oggi guardo questo capannone, un po’ troppo lontano da quel mare che d’inverno bussava alla porta della vecchia falegnameria, e mi rendo conto che, in questo mezzo secolo, non solo i luoghi della memoria si sono modificati, ma anche l’intero processo produttivo si è evoluto. Tutto è cambiato, molti processi produttivi si sono meccanizzati e il vecchio mestiere del mastro bottaio si è annacquato in questa società liquida.
Oggi sono rimasto l’ultimo bottaio di Marsala e forse anche l’ultimo di Sicilia, ma ho ancora voglia di misurarmi con il tempo cercando di mettere a disposizione degli altri il mio saper fare. Mi guardo indietro e di quel nutrito gruppo di oltre seicento bottai che si contavano negli anni Cinquanta a Marsala, sono rimasto solo io. Appartengo a una razza che è in via d’estinzione, ma a differenza di altri ho avuto almeno il merito di lasciare che mio figlio Girolamo cavalcasse il cambiamento e si ponesse dei nuovi obiettivi.
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Taccio e, come mio padre, non gli confesso mai la mia gratitudine, né il mio consenso, anche perché è forte e sa cosa vuole, e ti assicuro che ha imparato così bene che, in certe fasi operative, ha superato persino il maestro. Taccio e non gli confesso mai che sono orgoglioso del fatto che con lui i Li Causi portano ancora in alto la bandiera di quei maestri bottai di Marsala che continueranno ad avere una storia e a fare botti.
dal libro: Li Causi. Gli ultimi bottai di Sicilia
C'era una volta ... un pezzo di legno
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dal libro: Li Causi. Gli ultimi bottai di Sicilia
Marsala, terra di vino e di botti
dal libro: Li Causi. Gli ultimi bottai di Sicilia
Dalla doga alla botte
dal libro: Li Causi. Gli ultimi bottai di Sicilia
Il fuoco amico
dal libro: Li Causi. Gli ultimi bottai di Sicilia
La magia del numero otto
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Li Causi. Gli ultimi bottai di Sicilia
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