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Gli ultimi bottai di Sicilia


Li Causi. Gli ultimi bottai di Sicilia
 

La storia dell’azienda Li Causi s’intreccia con la vita di chi l’ha fondata, ampliata e consolidata nel tempo, dedicando a essa la propria esistenza. Se hai voglia di leggere queste poche righe ti accorgerai che i sacrifici e le passioni che hanno animato i protagonisti si mischiano fra loro, dando vita a quell’humus con il quale hanno dipinto, con colori tenui e delicati e in tempi e modi diversi, il loro quotidiano, dando valore a quell’arte antica dei mastri bottai; un’arte tramandata, da generazioni, nella famiglia Li Causi. 

 


 
Ed è di quel loro modo di plasmare gli oggetti che ho voluto disquisire in queste pagine, raccontandovi i dialoghi avuti con Mastro Giuseppe e con suo figlio Girolamo: con chi, da una parte, ancora oggi, rappresenta la tradizione e con chi ha legato la stessa al futuro.
 
È in questi dialoghi con gli ultimi bottai di Sicilia che spero possiate cogliere le sfumature di alcuni sottili pensieri e individuare quanto essi nascano da un ragionamento che ora si perde nella notte dei tempi, ora si concretizza nell’oggi, ora si proietta nel futuro. È proprio in base al perpetuarsi di una tradizione unita a un pensiero gestionale moderno che i Li Causi fanno del loro essere artigiani gli imprenditori nel terzo millennio.
 
Scrittore
 


 



 





 


Artifex della botte

  • Ti consiglio di visitare uno dei luoghi più belli della Sicilia che infonde un senso di pace allo spirito di chiunque, mosso da curiosità o amore per l’arte, o da voglia d’osservare e ispirarsi. Questo luogo è il chiostro del monastero dei Benedettini di Monreale
 
  • Posso assicurarti che anche tu percepirai un senso di stupore e meraviglia che accompagneranno la tua visita di quel luogo di preghiera e meditazione, in cui l’esperienza mistica imprime un segno indelebile e fissa nella mente le immagini uniche dei mosaici con cui sono tappezzate le pareti, i capitelli delle colonnine binate e ogni bassorilievo, costruendo un vero capolavoro d’arte religiosa che, come scoprirai, appaga l’anima.

 
  • Tra le raffigurazioni realizzate da maestranze bizantine, musulmane e francesi, ti sarà possibile osservare il ciclo figurativo dei dodici mesi dell’anno – che orna i capitelli delle colonne del chiostro della fontana – suddiviso secondo il ciclo stagionale. Le stagioni evidenziano la centralità delle attività nella società medievale in forma allegorica, attraverso la raffigurazione dei mestieri e delle pratiche culturali, mettendo in luce il legame con l’agricoltura e con la pastorizia. Tra le attività lavorative spicca un’unica raffigurazione di attività artigianale che connota il mese di agosto.
 

 

  • Vedrai, infatti, un uomo giovane e vigoroso che si appresta a colpire, con il mazzuolo impugnato nella mano destra, i cerchi che terranno saldamente unite le doghe di una botte che sta per ultimare. La tensione dei muscoli scolpiti nel bianco marmo di Paros, preannuncia il movimento in cui saranno sapientemente dosate forza e precisione. Il bassorilievo del giovane bottaio deve essere associato a quello del mese di settembre in cui è raffigurato un vendemmiatore intento a raccogliere in un tino, i frutti della vite. Bottaio e vendemmiatore sono mestieri legati alla viticoltura, pratica agricola di primaria importanza in un tempo in cui il vino non era solo bevanda, bensì alimento in grado di fornire un elevato apporto calorico. 
  • Ho sempre pensato che non fosse casuale l’inserimento della mia attività artigianale nella rappresentazione dei cicli stagionali che scandivano e ritmavano il tempo del lavoro e il sistema sociale. Un messaggio forte con il quale ti sarà possibile riconoscere l’artigiano come l’operatore della materia che, attraverso la tecnica, realizza e produce beni, sfruttando il proprio genio creativo. Quello era lo stesso operatore che nell’antica Grecia veniva chiamato demiurgo, l’artigiano libero, a cui si contrapponeva lo schiavo, che arrivava ad essere identificato, nella sua accezione più nobile, con il Demiurgo creatore il quale, attraverso il suo operato, dà forma e ordine alla materia. La capacità di creare utilizzando gli elementi della natura, in particolare il fuoco, in molte culture, ha dato origine alle figure di divinità artigiane o a quelle di artigiani-eroi, ammirati per il loro sapere e per le tecniche che custodivano.
  • Artigiani spesso temuti, tanto che tale dicotomia si ritrova spesso nella mitologia greca. Devi sapere che nel mondo classico non vi era una netta separazione tra l’artista e l’artigiano, la cui definizione, fra le altre cose, non esisteva ancora essendo identificato con la parola artifex dal latino artifex -ficis, composto da ars artis «arte» e da facere «fare». Fu nel corso dei secoli che tale separazione divenne più netta, in particolare dal Medioevo, quando maggiore risalto fu attribuito alle arti liberali (pittura, scultura, architettura) in opposizione alle arti meccaniche, di cui facevano parte anche le attività artigianali, il cui prodotto aveva scopo funzionale e non solo estetico. 
  • L’artigiano produceva e produce manufatti, basandosi essenzialmente sulla manualità e sfruttando gli utensili, spesso realizzati in proprio, in quell’equilibrio tra inventio e tecnica, corpo e strumento, che connota la sua arte.
 
  • Ora, guardami e osserva la mia mano quando piallo il legno. 
  • Come vedi è lo strumento più importante del mio essere artigiano. 
 

Chi lavora con le sue mani è un lavoratore. 
Chi lavora con le sue mani e la sua testa è un artigiano. 
Chi lavora con le sue mani e la sua testa ed il suo cuore è un artista.
San Francesco D’Assisi


 
  • È stata addestrata nei lunghi anni di apprendistato che hanno perfezionato ogni suo piccolo movimento. Guardala e ti accorgerai che è un tutt’uno con il corpo che ho imparato a controllare come un abile atleta; ho supervisionato ogni gesto con occhio critico e indagatore, ogni minimo movimento della mano, con cui stabilisce una relazione di amorosa e premurosa complicità. Ma è così un artigiano oggi? È ancora colui che eccelle nella propria “arte” tanto da potersi fregiare del titolo di maestro. È ancora il magister, quello che, ormai esperto conoscitore delle tecniche di lavorazione e dei movimenti del proprio corpo, utilizzato spesso come strumento e come “banco di lavoro”, plasma la materia e trasmette il proprio sapere sia all’oggetto sia a chi desideri apprenderlo, al fine di perpetuare la tradizione lavorativa di cui è custode. 
  • Questo è l’artigiano e questa bottega è il luogo deputato alla lavorazione e all’insegnamento, non solo delle nozioni di carattere teorico, apprese attraverso la pratica, ma anche delle regole comportamentali che interagiscono con questo mestiere poiché l’artigiano è spesso anche un maestro di vita. 
  • Tra i numerosi tipi di artigiano che da secoli hanno contribuito allo sviluppo degli scambi economici nelle società rurali e preindustriali, vi sono da distinguere due macro gruppi, quelli che lavorano i metalli e quelli che lavorano il legno. La mia maestria di bottaio può essere di diritto inserita nel secondo gruppo, anche se nell’attività lavorativa utilizzo il metallo, in particolare il ferro, materiale introdotto nella lavorazione delle botti abbastanza recentemente, cioè a partire dal XIX sec. Fino a quel periodo i cerchi che legavano il fasciame, erano realizzati in legno.
 
 
"Il mio è un mestiere antico
di cui si hanno tracce in tutte le popolazioni mediterranee,
tracce ritrovate sia attraverso fonti scritte,
sia visionando reperti archeologici"

 



 
  • Pensa che la più antica attestazione del bottaio risale al 2700 a.C., periodo in cui fu realizzato un dipinto raffigurante un artigiano bottaio all’interno di un monumento funerario egizio. Ma molte di più sono le iconografie rintracciabili nell’arte romana, come potrai osservare nel bassorilievo della colonna Traiana e in quello della colonna Aureliana a Roma. Molti studiosi asseriscono che la botte abbia avuto origine nella Gallia transalpina, mentre secondo altri sembra che essa sia nata fra le civiltà mediterranee.
  • Io non so chi abbia ragione, ma di certo so che il processo di produzione delle botti è rimasto inalterato per secoli e che, ancora oggi, io seguito a fare quello che mi hanno insegnato, lavorando il legno per ottenere doghe con cui fare botti.

 

dal libro: Li Causi. Gli ultimi bottai di Sicilia

 





 


Il tempo andato

  • Non so se sarò in grado di ricordarmi e raccontarti per filo e per segno il mio passato. So però con certezza che se riuscissi a tanto, arriverei ad annoiarti parlandoti di un tempo andato, del mio lavoro e della mia bottega, dei miei sogni e di quanto essi siano intrecciati con la tradizione familiare di generazioni di maestri bottai. Non saprei neanche da che punto cominciare, figurati se ricordo da quale data tutto ebbe inizio! 

  • Sicuramente indossavo ancora i pantaloni corti quando entrai per la prima volta in quella bottega che mio padre non poteva più seguire, come un tempo, per via di quel suo cuore malato che aveva deciso di non assecondarlo più nei suoi progetti, limitandone il divenire.  Avrò avuto forse, si o no, otto anni. Ero un fanciullo.

  • Erano altri tempi quelli e lo erano davvero perché si era costretti a diventare grandi prima del dovuto. Improvvisamente mi ritrovai in mezzo a uomini che avevano quaranta o cinquant’anni più di me, ai quali indicare cosa dovessero fare in quella falegnameria che mi sembrava molto più grande di quanto in realtà fosse. Dovetti crescere in fretta imparando quel mestiere che, come avrai potuto constatare, mi è entrato dentro a tal punto da non saper più distaccarmi da quell’impegno lavorativo, arrivando a ragionare di botti o modellare legni per fare botti anche la domenica.

  • Ma se insisti sul fatto che debba trovare un preciso punto da dove tutto sia realmente iniziato, forse ti dovrò riportare indietro nel tempo a un giorno di quasi sessant’ anni fa, a un pomeriggio di febbraio. I pantaloni si erano allungati e mi facevano compagnia ben diciotto anni, quelli che, ahimè, non son tornati più. Ricordo che faceva freddo, molto freddo, ma non so se lo fosse davvero o se fossi io a percepirlo così intenso, sta di fatto che l’aria di quel pomeriggio di febbraio era talmente gelida da seccarmi quelle lacrime che mi avevano solcato il viso. Il freddo lo sentivo dentro, tanto che non solo mi aveva gelato le ossa, ma era andato nel profondo arrivando all’anima. 

  • Pur essendo passati degli anni quel freddo lo sento ancora addosso e il ricordo vive ancora nella mia memoria; rammento i volti di tutte le persone che quel giorno mi strinsero la mano, dimostrandomi il loro affetto. Sono immagini nitide quelle che si susseguono quando ripenso a quel pomeriggio di febbraio, quando accompagnai mio padre nell’ultimo suo viaggio. Davanti a me avevo una cassa da morto, quella dove lo avevamo riposto piangendo. Procedeva lenta, portato a spalla dai miei parenti e dai più intimi conoscenti che avevano deciso, in memoria di chi vi era dentro, di caricarsela sulle spalle e di condurla fino al cimitero di Marsala. 

  • Ogni tanto distoglievo lo sguardo da quel legno che galleggiava su quel mare di persone, cercando di consolare mia madre e le mie tre giovani sorelle, Giovanna, Giuseppina e Anna. Quel lento navigare appesantiva il senso di alienazione dei luoghi stessi che stavamo attraversando, alcuni dei quali mi erano più familiari di altri in quanto, essendo stato anch’io fanciullo, avevo giocato lì in mezzo. Tutto mi trasportava oltre quel vissuto, dando spazio a un vuoto immenso che andava, via via, riempiendosi della sconsolata certezza di essere rimasto solo a dover, l’indomani, fronteggiare i bisogni della famiglia e quelli dell’azienda. 

  • Tutte le sicurezze fin lì acquisite si erano dissolte mentre cresceva in me l’angoscia di non avere più vicino a me quella vigile e paterna presenza. Dentro avevo solo l’assordante frastuono del cuore che batteva forte, mentre davanti a me una bara e intorno ad essa una processione che assomigliava a una via crucis. Furono più di duemila le persone che quel giorno percorsero silenziosamente via Isgrò. Non so, ma probabilmente quando il feretro giunse al cimitero vi era ancora gente che scendeva da Porta Trapani, per risalire lungo la strada e raggiungere il luogo della sepoltura. Tutta Marsala si era mossa per rendergli omaggio. 

  • Pensa che perfino le Cantine Pellegrino, quel pomeriggio, interruppero l’attività produttiva per consentire ai dipendenti di partecipare al funerale, ma furono molte anche le botteghe che fecero la stessa cosa; sicuramente vi erano tutti i bottai, e non solo quelli della cooperativa che mio padre aveva fondato con Clemente ed Aleci qualche anno prima, ma tutti quelli di Marsala che, in quegli anni, ne contava oltre seicento. Quell’affetto palpabile che mi circondò, mi commosse e mi gratificò enormemente, facendomi comprendere ancora una volta che Francesco Li Causi, mio padre, non era stato solo un bravo bottaio, ma un grande uomo, meritevole di quel rispetto che lui sapeva insegnare e dimostrare. 

  • Ti posso assicurare che era un uomo forte e vitale, severo sul lavoro, ma sempre disponibile e sorridente. Era una persona apprezzata e ben voluta da collaboratori, amici e conoscenti. Non ti nascondo che mi sorse il dubbio che forse non sarei mai arrivato a ottenerne una così grande considerazione. Un dubbio che non ho mai fugato, ma che mi ha spinto a seguire il suo esempio, e far sì che fosse il tempo a dissiparlo per me. Mi aveva insegnato che la stima e il rispetto degli altri non sono oggetti che si comprano al mercato, ma si guadagnano giorno dopo giorno. 

  • Sapevo che avrei dovuta farne di strada per diventare un maestro e un esempio da emulare, come lui lo era stato per molte di quelle persone che lo stavano accompagnando nel suo ultimo viaggio. Guardavo quel feretro sapendo che dentro vi erano i frammenti di una vita comune.Penso proprio che tutto sia partito da quel pomeriggio di febbraio, proprio da quel legno che ondeggiava su quel mare di gente e dal ricordo vivo di chi mi aveva insegnato a far botti, mostrandomi quale fosse il materiale migliore per contenere un vino pregiato, capace di conservarlo a lungo senza togliergli nulla di ciò che l’uomo aveva fatto in vigna e realizzato in cantina. 

  • Sì, tutto parte da Francesco e dal quel momento quando, ancora bambino, con mente fresca e vivace, ripetevo i rituali che l’apprendistato, al quale mi aveva avviato, imponeva. Sognavo di divenire un magister come lui e, per diventarlo, l’ho seguito, passo passo, fin da quando, dopo la scuola, nel pomeriggio, andavo in bottega ad ascoltare i suoi insegnamenti, imparando a utilizzare la pialla, l’ascia e a far di conto. 

  • Usava parole che rimanevano scolpite nella mia mente, così come mi rimaneva impresso il suo severo giudizio che lo spingeva a rimproverarmi. Arrivava a distruggere il manufatto che avevo appena realizzato se non era conforme allo standard qualitativo della sua bottega, così da perfezionare non solo la mia manualità, ma anche aumentare la mia stessa tenacia. Spesso restavamo oltre l’orario di lavoro, così mi insegnava cose che altri non avrebbero dovuto sapere, quelli che lui riteneva essere i segreti del mestiere del mastro bottaio come il saper disegnar botti, misurarne e calcolarne la capienza.

  • Segreti che ho custodito come se fossero delle formule magiche che mi divertivo a sfoggiare con chi ne sapeva molto meno di me. Come vedi ne avrei di cose da raccontarti poiché sono infiniti gli aneddoti e i ricordi che mi legano a lui, come quando, con gli occhi lucidi, mi chiese di lasciare la scuola per occuparmi, a tempo pieno, dell’azienda: “ho bisogno di te” mi disse. Poche parole, ma che racchiudevano una profonda tristezza sprigionata dall’impossibilità di poter continuare a fare ciò che aveva sempre fatto nella sua vita: il bottaio. Ricordo bene quel suo sguardo. 

  • A distanza di oltre cinquant’anni trattengo a stento la commozione ripensando all’orgoglio che provai portando a casa il guadagno della settimana di lavoro, dopo aver pagato il salario agli operai. Sì, credo che tutto parta proprio da quel giorno e da quella consapevole certezza che da quel momento avrei dovuto decidere io del mio futuro, anche se tutto era già stato scritto da Francesco, che sapeva bene che io avrei dedicato la mia vita a questo mestiere che amo profondamente. Come sai i ricordi chiamano altri ricordi e, ora che me li hai stimolati, li sento affiorare veloci nella mente, tanto da ricordare perfettamente ogni cosa, come il fatto che, poco dopo la morte di mio padre, decisi di uscire dalla cooperativa dei bottai di cui lui era stato fondatore e segretario. 

  • Scelta dolorosa e contrastata perché era una società importante nella quale lui aveva sempre creduto e dove erano confluiti quasi tutti i bottai della città di Marsala. A questo veniva distribuito il lavoro commissionato dalle cantine vinicole del territorio, fra le quali anche quello delle Cantine Pellegrino, dove aveva avuto sede la nostra originaria bottega. Cantine che avevano sempre mantenuto un rapporto d’esclusiva e fiduciario con mio padre e che, fin che lui era stato in vita, non era mai stato messo in dubbio da nessuno. Io volli mantenere a tutti i costi questo rapporto a dispetto di quegli stessi soci, i più vecchi e scaltri dalla cooperativa, che invece pensavano di poter modificare a pro loro lo stato delle cose, desiderosi come erano di ridistribuire, secondo nuovi criteri e fini personali, il lavoro che giungeva da quella prestigiosa azienda. 

  • Con la certezza di avere dalla mia quel contratto morale esistente e non scritto fra mio padre e le Cantine Pellegrino, mi misi in proprio, consapevole che avrei dovuto lavorare più di quanto avessi fatto fino ad allora. Mi sposai il 23 Aprile. Avevo 24 anni. Una settimana dopo le nozze della minore delle mie sorelle, Anna. Con i proventi del mio lavoro mi costruii la casa, proprio sopra il magazzino in cui avevamo trasferito la bottega, nella splendida zona di Capo Boeo, quella di cui ti parlavo prima, proprio di fronte al mare. Presto arrivarono i figli ma questo non mi frenò, anzi proprio quando loro incominciarono a divenire adolescenti, negli anni Ottanta, decisi di interrompere l’esclusivo rapporto lavorativo che mi legava alle Cantine Pellegrino, per dare nuova linfa vitale all’azienda. Detti avvio ad altre collaborazioni come quella che mi unì alle Cantine Florio e quelle con altre realtà nazionali, fra cui un consistente numero di aziende vitivinicole della Sardegna, dove arrivai a spedire anche 13.000 botti all’anno. 

  • Il successo della mia attività era direttamente collegato alla mia capacità di saper realizzare qualsiasi tipo di recipiente in legno, dimostrando, a chi avesse dei dubbi, di aver ereditato la maestria che connotava i bottai della famiglia Li Causi. La consacrazione del mio saper fare avvenne in occasione della realizzazione di dodici tini da 665 hl commissionatami dalle Cantine Florio. Nessuno a Marsala avrebbe scommesso sulla buona riuscita del lavoro e in particolare un noto bottaio del tempo, “u ‘zu Angelo Coppola”, che a parole era il più scettico di tutti, sostenendo l’impossibilità di poter riempire di vino tini così grandi. 

  • Lo stupore fu grande quando, a lavoro ultimato, i tini furono capaci di sostenere il peso del vino introdotto. Ricordo che fu allora che il mastro bottaio Angelo Coppola riconobbe il suo errore e non mancò, pochi giorni dopo, incontrandomi presso il mercato ittico di Marsala, di dimostrarmi la sua ammirazione, prostrandosi ai miei piedi per pulirmi le scarpe con il suo fazzoletto. Così facendo riconobbe pubblicamente che l’avevo superato in bravura e coraggio e divenni di fatto, da quel momento, il migliore dei bottai di Marsala. Guardandomi indietro oggi, ammetto non solo di aver avuto coraggio, ma anche un po’ d’incoscienza ad accettare quella sfida, poiché non avevo nessuna esperienza in tal senso e nessuno a Marsala aveva mai realizzato tini di tali dimensioni. 

  • Ma il coraggio di affrontare nuove sfide non mi è mai mancato, come non è mai venuta meno la voglia di rendere vivo e appassionante questo mestiere, aspetti caratteriali che sono propri anche di mio figlio Girolamo, che ora lavora qui con me. Oggi guardo questo capannone, un po’ troppo lontano da quel mare che d’inverno bussava alla porta della vecchia falegnameria, e mi rendo conto che, in questo mezzo secolo, non solo i luoghi della memoria si sono modificati, ma anche l’intero processo produttivo si è evoluto. Tutto è cambiato, molti processi produttivi si sono meccanizzati e il vecchio mestiere del mastro bottaio si è annacquato in questa società liquida.

Oggi sono rimasto l’ultimo bottaio di Marsala e forse anche l’ultimo di Sicilia, ma ho ancora voglia di misurarmi con il tempo cercando di mettere a disposizione degli altri il mio saper fare. Mi guardo indietro e di quel nutrito gruppo di oltre seicento bottai che si contavano negli anni Cinquanta a Marsala, sono rimasto solo io. Appartengo a una razza che è in via d’estinzione, ma a differenza di altri ho avuto almeno il merito di lasciare che mio figlio Girolamo cavalcasse il cambiamento e si ponesse dei nuovi obiettivi. 

 

 
  • Il merito è comunque più suo che mio perché, a differenza di mio padre Francesco, non gli ho chiesto né di seguire la mia strada, né gli ho imposto di seguire la tradizione dei mastri bottai. Ho due figli, entrambi li ho fatti studiare, lasciando che decidessero liberamente cosa avrebbero voluto fare delle loro vite. Quando ormai avevo perso ogni speranza, uno di loro, Girolamo appunto, dopo varie esperienze lavorative, decise di definire, accanto a suo padre, il suo domani. 
 
  • Ti confesso che, quando prese questa decisione, pensai che ormai fosse vecchio per imparare un mestiere che s’acquisisce quando si ha quella freschezza intellettiva che è la prerogativa dei ragazzi, che hanno, inoltre, l’umiltà di chiedere per imparare a fare. Invece, con mia sorpresa, da subito mi dimostrò di avere questo mestiere nel sangue, l’attitudine, la capacità e l’intelligenza per mandare avanti l’azienda e condurla verso un cambiamento.
 
  • Taccio e, come mio padre, non gli confesso mai la mia gratitudine, né il mio consenso, anche perché è forte e sa cosa vuole, e ti assicuro che ha imparato così bene che, in certe fasi operative, ha superato persino il maestro. Taccio e non gli confesso mai che sono orgoglioso del fatto che con lui i Li Causi portano ancora in alto la bandiera di quei maestri bottai di Marsala che continueranno ad avere una storia e a fare botti.

     

dal libro: Li Causi. Gli ultimi bottai di Sicilia

 





 


C'era una volta ... un pezzo di legno

  • Così ha inizio la narrazione delle avventure di Pinocchio, quell’amato burattino nato dalla penna di Collodi. Se pensi bene a quella storia ti sorprende un po’ leggerla. L’autore iniziando a descrivere quel pezzo di legno, trovato in una catasta di legname da ardere, all’interno della bottega di un falegname, è riuscito ad animarlo e a farlo diventare “parola”. ​
 
  • Il protagonista non è, dunque, un re o un principe azzurro innamorato dell’indifesa donzella, bensì un pezzo di legno, un elemento all’apparenza comune, povero e inanimato.


 
  • Ed è da un pezzo di legno che voglio iniziare a raccontarti cosa faccio, poiché è da quel materiale inanimato che creo storie: ciò che tu vedi fra le mie mani, infatti, non è solo una doga di legno, ma in essa vi è ben altro. Guardala perché potresti scoprire che essa, magicamente, si anima, per volontà, per amore e l’artigianale abilità di un Mastro Geppetto come me o di un altro, uno qualsiasi, che la trasforma in un burattino, simpatico compagno di giochi di tante generazioni di bambini. Uscendo da quell’affascinante contesto fiabesco ti domando quante parabole, similitudini, metafore e attente considerazioni conosci sul mestiere del falegname e quante altre ne conosci su quel nobile materiale che è il legno e che io utilizzo per fare le botti. 
 
  • Guarda il legno e pensalo come elemento e non più come un semplice oggetto. Guardalo come compagno utile alla sopravvivenza, come fonte di energia, come strumento dell’evoluzione tecnologica dell’uomo, come corredo, arredo o compagno della vita quotidiana e come elemento duttile da essere utilizzato per la costruzione e tornito secondo necessità. Pensalo con valenza simbolica, in rapporto agli elementi naturali quali l’acqua, l’aria, la terra e il fuoco che da esso si alimenta e dal quale è modellato; pensalo come elemento naturale, vivo, che, trasformandosi, acquista nuova vita e nuovi significati, secondo un processo ciclico di nascita, morte e rinascita.
 
  • Non trovi che dopo queste considerazioni il legno abbia un altro valore? Non trovi che acquisisca una sua identità, diversa da quella a cui stavi pensando? Per me che lo tocco e lo lavoro, il legno ha una valenza particolare, è sostanza da plasmare e trasformare, è l’elemento cardine da cui partire. 
 
  • Durante gli anni ho imparato a conoscerlo e selezionarlo, a modellarlo e forgiarlo. Attraverso l’azione ho compreso che ha un’anima che si cristallizza al suo interno e racchiude le tecniche, i gesti, le conoscenze dell’universo culturale in cui è stato lavorato, quindi anche quello di una bottega di mastri bottai, divenendo l’espressione tangibile di un linguaggio fortemente simbolico, connotato dalla ciclicità e dalla ritualità dei gesti trasmessi da una generazione all’altra di uomini che amano il legno. Così, realizzare una botte richiede la conoscenza del tipo di legno e del processo produttivo che lo coinvolgerà, oltre alle finalità, utilità, dimensioni e forme che devono essere realizzate per il preciso scopo a cui è destinato. 
 
  • Una botte non è solo un semplice contenitore, ma un insieme di “gesti” che l’hanno resa tale; è l’espressione di un pensiero che travalica il concetto del manufatto fine a se stesso. Una botte trasmette emozioni, suoni armonici, odori e la passione di un mestiere e di un’arte dal sapore antico. Guarda questa doga di legno che ho in mano, pensa a ciò che hai appena ascoltato e dimmi quanta poesia vi è in ciò che vedi. 
 
  • I nostri collaboratori amano chiamarmi Mastro Pino poiché ho trascorso la vita in bottega a far botti, toccando, piallando e modellando il legno, riconoscendone le virtù, i difetti, il suono, l’odore e il colore. In quei lustri è come se avessi instaurato con il legno un rapporto diretto, emozionale e sensoriale.
 
  • Per me non ha importanza se utilizzo castagno o rovere di quercia, perché sono fondamentali altri parametri per giudicarlo; come capire, ad esempio, da dove provenga quel fasciame che andrò ad utilizzare, in quale parte della foresta di quello stesso territorio è cresciuto, qual è l’età della pianta abbattuta e se il vento che l’ha sferzata – se è stato Scirocco – possa aver determinato, specialmente nel rovere, una particolare morfologia “a cipolla” della pianta, facendo risultare il suo legname poco adatto alla realizzazione di botti. Il vento di Scirocco invece costituisce un valido alleato quando pongo il legname a stagionare, come succedeva quando avevamo la bottega ancora a Capo Boeo, sul mare, poiché quel processo si accorciava notevolmente riducendosi ad appena otto mesi.
 
  • Un processo naturale indispensabile, propedeutico alla lavorazione delle doghe che costituiranno la botte e che in questa parte della Sicilia è agevolato dall’azione degli agenti naturali, in particolare del sole e del vento che determinano una maturazione della linfa, un’apertura dei pori e la perdita di alcune sostanze quali i tannini più duri presenti nel legno, facendogli acquisire una “morbidezza” aromatica e fisica unica; qualità che saranno rilasciate al vino. 
 
  • I legni, destinati al vino li vado a ricercare in diverse aree d’Europa e del continente americano, direttamente nelle foreste dell’Allier e del Limousin in Francia, in cui predominano, rispettivamente, la quercia sessile e la quercia peduncolata, o nelle ricchissime foreste della Slavonia, della Croazia, della Serbia e della Bosnia, le cui particolari caratteristiche pedologiche e climatiche consentono la nascita di querce che hanno legnami aromatici. Legno che analizzo per colore, per taglio, per presenza dei nodi, per il suo spessore, per la morfologia della sua fibra e per la porosità, oltre che per l’idoneità che quel particolare legno ha di diventar botte per il vino.
 
  • Un’attitudine che percepisco anche attraverso il suono che ogni doga emana se battuta a terra, o attraverso l’olfatto che mi consente, come un abile sommelier, di scoprire gli odori e l’essenza contenuta nel legno, riuscendo perfino, in alcuni casi, a individuarne la provenienza. È quando c’è da decidere quale legno utilizzare per quello specifico vino che entra in gioco l’esperienza di chi, come me, ha guardato, udito, annusato e toccato il legno, e non ci sarà mai nessuna macchina che potrà sostituirmi in questa specifica valutazione.
 

dal libro: Li Causi. Gli ultimi bottai di Sicilia

 





 


Marsala, terra di vino e di botti 

  • Sai chi furono i promotori del cambiamento vitivinicolo di queste terre trapanesi e in particolar modo di questa città? Te lo racconto io: furono gli imprenditori inglesi che a partire da XVIII secolo cominciarono a esportare il vino Marsala. Da quella loro fiorente attività commerciale nacque un’importante attività artigianale sul territorio, finalizzata alla realizzazione di botti, che per più di due secoli è stata strettamente legata alla grande produzione industriale di vino, cominciata e perpetuata, appunto, dagli inglesi e, successivamente, dagli imprenditori locali.
 

 

  • Fu proprio in quel contesto che si assistette all’affermarsi di un artigianato altamente specializzato nella costruzione di botti destinate alle cantine vinicole le quali, spesso, ospitavano nei loro stabilimenti vinicoli le stesse botteghe dei bottai, fornendo loro il legno o il ferro da lavorare. La venna era l’unità di misura con cui veniva calcolata non solo la quantità di legname acquistata dall’azienda vinicola e consegnata all’artigiano, ma indicava anche la produzione in botti che l’artigiano doveva consegnare alla stessa azienda in una settimana. Sempre attraverso la venna, veniva determinato il salario degli operai, quello dei mastri bottai, dei mezzi mastri, dei garzoni e dei picciotti che operavano in bottega.
 
  • Un nugolo di persone il cui lavoro era scandito da fasi produttive ritmate da una ciclicità che settimanalmente si ripeteva. Erano decine le botteghe che affollavano e animavano la città negli anni Sessanta del Novecento, anche perché, pur essendo un mestiere sicuramente duro e faticoso, consentiva una fonte di guadagno certa, in grado di sostentare le famiglie anche in periodi economicamente difficili. Mi raccontava mio padre Francesco e a lui “mastru Vuttaru Pitrino Li Causi”, mio nonno, che il bottaio godeva di una posizione particolare all’interno del tessuto sociale marsalese, di cui era anche un esperto, essendo un diretto testimone del lavoro e della vita lavorativa.
 

 



 

  • Tutto aveva un preciso scopo, che era quello di dare valore al proprio operato che consentiva di poter condurre un’esistenza al riparo dagli stenti, nei quali invece, posso assicurarti, almeno negli anni immediatamente successivi al secondo conflitto mondiale, erano costretti a vivere moltissimi siciliani. Pensa che in quel periodo potevamo concederci alcuni “lussi”, come l’acquisto della carne per il pranzo della domenica e la visione di spettacoli teatrali e cinematografici che venivano organizzati in città, o altri svaghi riservati, comunque, ai giorni festivi di quella media borghesia che sfoggiava un abbigliamento elegante e raffinato, ma mai ostentato.
 
  • Pensa che vi era un detto in dialetto siciliano, recitato da una madre alla figlia durante una festa da ballo, che diceva: “abballa abballa a matri chi è mastru di bagghiu” (balla, balla, figlia mia che [questi] è un mastro bottaio). Una madre che considerava il mastro bottaio un ottimo partito per la figlia. Guarda queste foto, osserva come lavoravamo un tempo. Questi sono i luoghi della memoria, quella che tu mi aiuterai a tramandare affinché non vada persa. Poi tutto improvvisamente si è deteriorato e l’introduzione dei recipienti in plastica e dei tank di metallo in campo enologico, ha determinato un repentino e drammatico declino di questo sistema produttivo.
 
  • Tra la fine degli anni Sessanta e gli anni Settanta la riduzione della domanda di botti da parte delle aziende vinicole causò, nel giro di pochi anni, la chiusura di centinaia di botteghe. Il mestiere tanto ammirato del bottaio subì così un declino inarrestabile che spinse gli artigiani più anziani ad andare in pensione e i più giovani a cambiare attività. Rimanemmo in pochi a produrre botti, sfidando i tempi, lo scetticismo degli ex colleghi e la globalizzazione dei mercati.
 

dal libro: Li Causi. Gli ultimi bottai di Sicilia

 





 


Dalla doga alla botte

  • Vorrei che tu avessi tempo e potessi assistere alla nascita di una botte, sicuramente rimarresti affascinato da quello spettacolo.
 


Ti accorgeresti che lungo tutta la filiera produttiva le azioni si interfacciano e le stesse macchine affiancano in modo armonico le pratiche manuali che scandiscono le fasi salienti della lavorazione.
 

  • In ogni momento potresti percepire come il bagaglio culturale del “saper fare” si intreccia oggi con l’elettronica e la meccanica, innescando un sistema unico dove il background che ha connotato per decenni l’identità dell’azienda si va trasformando, così come la tradizione, mai statica e fine a se stessa, si evolve verso il nuovo.  
 
  • ​Tutto si unisce e si scompone per andare a mischiarsi nuovamente. 
 
  • Così la piegatura delle doghe anticipa l’assemblaggio delle stesse e la battitura dei cerchi, che avviene col martello e lo sciassu, il particolare scalpello con base in legno che ora ti sto mostrando. Il tutto si svolge al suono di un ritmo cadenzato che diventa “Marsalesa”, quella musica riconoscibile da chi appartiene allo stesso contesto culturale.   Una musica difficilissima da eseguire poiché è l’insieme di tanti colpi dati da più persone al cerchio in tre differenti punti contemporaneamente; questa tecnica richiede un alto grado di maestria per evitare l’eccessiva pressione sulle doghe in un punto o in un altro, con la relativa incisione del fasciame.
 
  • Potresti anche rimanere per osservare come io sia amico del fuoco, che alimento e controllo per farmi aiutare dallo stesso a modellare e poi tostare il legno in modo dolce, tanto che sono sicuro che da questo, come dal profumo sprigionato nell’aria dal legno riscaldato, ne rimarresti inebriato. Sono anche certo che saresti sorpreso nell’osservare come realizzo e assemblo i timpagni, i fondi, e come li fisso nell’apposita capruggine, la testa della botte, facendola aderire perfettamente con l’aiuto della burda, un’alga del territorio marsalese, essiccata al sole e usata come guarnizione naturale per le doghe di testa.
 
  • Se rimani qualche giorno, potresti vedere nascere botti da 60 tonnellate o le barrique da 225 litri, oppure i barilotti da 35 a 65 litri o il barile o il caratello, rispettivamente da 100 e 200 litri, o anche la bordolese da 350 litri che io chiamo quattropalme o le più grandi carratoncino e la cinquepalma che hanno una capacità stimata tra i 600 e i 1000 litri. Ognuna di esse ha dei cerchi, una testa, la posta, la supraposta e la panza e di nuovo la supraposta, la posta e la testa.
 
  • Rimani qui per un po’, così potrai osservare come ognuna delle persone che vedi svolge il proprio compito ed è sempre lì dove deve stare, sapendo d’essere l’ingranaggio di una macchina che, impeccabilmente, si avvia ogni mattina.


 

dal libro: Li Causi. Gli ultimi bottai di Sicilia

 





 


Il fuoco amico

  • Lavoro il legno e per plasmarlo uso il fuoco. Lo uso come e forse più di quanto faccia di solito un maestro d’ascia quando costruisce lo scafo di una barca o di un fabbro che forgia il ferro. 
 

 
  • Il mio è un fuoco amico che allunga le fibre del legno e le rende duttili come la creta. È un fuoco che non fa paura poiché non è in opposizione al legno, ma in relazione a esso. 

 

  • Sotto uno sguardo attento e premuroso segna il momento in cui la botte prende forma, scaldandosi e dimenandosi fra le doghe. 
 
 
 
  • Non ti nascondo che ancora, dopo tanti anni, rimango affascinato dal suo muoversi e dal suo vivo ondeggiare, tanto da subirne un’attrazione particolare che mi cattura lo sguardo, i pensieri e l’immaginazione.
 
  • Per me ha un fascino ipnotico essendo sensuale come una femmina e forte come un maschio. Pensa che il suo addomesticamento ha dato inizio a quella civiltà dell’uomo nata più di un milione di anni fa, dandoci l’opportunità di usarlo in mille modi, ma soprattutto come fonte di luce e di calore. Intorno a lui vi sono miti e leggende che raccontano di un fuoco sacro degli dei, tolto agli uomini per punizione, e restituito ad essi da Prometeo, che lo rubò dalla fornace di Efesto. Si racconta di un fuoco che è teofania il cui esempio è il passo della Genesi in cui Dio si manifesta a Mosè sotto forma di “fiamma di fuoco in mezzo ad un rovereto”; fiamma ardente che non brucia il legno, un fuoco che alimenta il rapporto diretto che esiste tra di esso e la sfera divina, come unione di luce e calore; è allo stesso tempo forza creatrice e distruttrice, divinità che dà la vita e la morte. Un fuoco che consuma, trasforma, crea e rigenera la materia, come forza fecondatrice del terreno che nutre durante il suo passaggio. 
 
  • Fuoco, quindi, che simbolicamente unisce terra e cielo e mette in comunicazione il regno celeste e la terra attraverso il fumo. Fonte di luce, strumento di comunicazione e manifestazione stessa del divino, il fuoco è utilizzato sia come consacrazione e purificazione, sia come elemento di identificazione del focolare domestico, del tempio, dello spazio pubblico fruito dai cittadini. Così mi hanno insegnato ad apprezzarlo e ad usarlo divenendone il suo domatore.
 

dal libro: Li Causi. Gli ultimi bottai di Sicilia


 

 





 



La magia del numero otto
 

  • Mi sentivo orgoglioso di essere il figlio di Ciccio Li Causi, il mastro vuttaro. Al ritorno da scuola ricordo che mi precipitavo in bottega e presi dei fogli di carta vi disegnavo sopra una botte che assumeva di volta in volta forme e dimensioni diverse. Poi provavo e riprovavo cocciutamente a segnare il numero delle doghe necessarie per l’assemblaggio, scoprendo che quel calcolo era molto complesso per un ragazzo di otto anni.
 


 
 
 


Furono tante le informazioni che col tempo ottenni da quel numero, anche se non sono mai riuscito a spiegarmi quale sia la chiave interpretativa di quell’8 nella costruzioni delle mie botti. 

 
 
 
  • Man mano che approfondivo il mio apprendistato le cose iniziarono a farsi più chiare e anche i numeri divennero più comprensibili, ma non del tutto fruibili, anche se mio padre m’insegnava a usarli, portandomi dei paragoni o prendendo spunto da storie di vita quotidiana, proprio con l’intento di farmi comprendere meglio quanti e quali fossero i meccanismi che interagiscono nel progetto di una botte. Rammento che alcune volte mi parlava con tono fermo e deciso, mentre altre volte bisbigliava, ritenendo ciò che mi stava rivelando importantissimo e segreto.
 
  • Poi, magicamente, anche quel calcolo che mi consentiva di determinare la capienza di una botte, divenne semplice. Accadde durante uno di quei viaggi che compivo seguendo la sua “parola”, nel quale mi raccontò di una magica formula matematica: quella dell’8. Con occhi attenti e ricchi di stupore l’ascoltai e memorizzai ogni singolo particolare di quel racconto. Non mi capacitavo di come quel piccolo numero, avesse un così grande e magico potere. 
 
  • Secondo lui nessun calcolo utile alla determinazione della capacità di un tino o di una botte, poteva dare un corretto risultato, se non era utilizzato l’8. Dovevo immediatamente sperimentarne la veridicità sui miei fogli. Così feci prove e riprove, applicando la misteriosa regola a qualunque tipo di botte e tino a cui pensavo. Mio padre aveva ragione. Magicamente quel numero mi trasmise un senso di euforia, orgoglio e felicità. Mi dava sicurezza sapere di essere custode della “chiave” di lettura di quel magico numero 8, che mi avrebbe consentito di aprire definitivamente lo scrigno di questo lavoro e incominciare a vestire i panni del mastro bottaio.
  • La fierezza divenne ancora più grande e l’orgoglio straripante quando anche altri bottai, molto più anziani di me, incominciarono a chiedermi di potergli calcolare dimensioni e capacità delle botti che andavano costruendo. Molto più tardi compresi che l’8 aveva un particolare significato anche nell’arte, nell’architettura e nella filosofia, e non solo nella cultura occidentale, ma anche in quella orientale. Furono tante le informazioni che col tempo ottenni da quel numero, anche se non sono mai riuscito a spiegarmi quale sia la chiave interpretativa di quell’8 nella costruzioni delle mie botti. 
 
  • Ma di questo non me ne preoccupo, dato che continuo a utilizzarlo ancora oggi, custodendolo con lo stesso riserbo di un tempo.

 

Li Causi. Gli ultimi bottai di Sicilia

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Girolamo Li Causi, dalla bottega all'azienda
 
Non so se ho fatto male o bene a seguire le orme di mio padre, ma ti posso assicurare che a distanza di vent’anni non mi sono pentito di essergli cresciuto accanto come uomo e come bottaio, avendo la possibilità  di prendere in mano le redini di questa azienda.

 

 
Erano tante le trasformazioni da attuare, visto che la bottega aveva mantenuto inalterato il processo lavorativo. "Così si è trasformata questa azienda, puntando sulla qualità figlia della tradizione e dell’esperienza del mastro bottaio e di quella tecnologia robotica con la quale tendo alla “perfezione".
 
Non sono cresciuto come lui dentro la bottega, ma al margine, acquisendo altre esperienze che hanno modificato il mio modo di vedere le cose. Una lettura con la quale ho interpretato quali fossero i segnali del cambiamento che stava coinvolgendo il mondo del vino e, parallelamente, anche il mestiere del bottaio. Un mestiere che ho conosciuto da neofita e che ho affrontato con la mente libera da qualsiasi schema precostituito e da quei pregiudizi che la tradizione rende difficile da estirpare.
 
Non mi apparteneva l’idea di seguire ciò che era sempre stato fatto, né le regole dettate da un mercato prettamente locale che mi spingeva a confrontarmi con i soliti noti. Forse è per questo che quando sono arrivato in bottega ho definito delle nuove regole, cercando di dar vita a una nuova cultura imprenditoriale, accettando la sfida che mi veniva lanciata dal mercato globale.
 
A distanza di anni ringrazio mio padre per avermi tenuto distante dal “malaseno”, quel magazzino in cui aveva sede la bottega, lasciandomi costruire una mia personale visione di quel mestiere di bottaio, nel quale lui stesso non credeva più, pensando che non fosse in grado di offrire ormai nessuna opportunità per il futuro.
 
“Dovete studiare, fate i medici o i commercialisti, ma nella putia non ci dovete mettere piede”.
 
Così facemmo. Mio fratello Francesco, dopo essersi iscritto all’università entrò in banca, mentre io, dopo il diploma, mi ritrovai assunto dall’Ispettorato Forestale Sicilia. Uno stipendio più che discreto e un’attività lavorativa per nulla faticosa, mi diedero l’opportunità di condurre uno stile di vita agiato, in cui potevo permettermi anche qualche piccolo lusso. Dopo l’entusiasmo dei primi anni, la situazione cominciò a mutare in peggio, l’ambiente lavorativo non era più tranquillo, le responsabilità e i rischi di cui dovevo farmi carico mi causavano nervosismo e notti insonni. Avevo bisogno di nuovi stimoli, di mettermi in gioco, di cimentarmi in un’attività che potesse entusiasmarmi.
 
Dovunque mi girassi sentivo parlare di vino e la cosa mi fece comprendere che, forse, il decidere di dedicarmi al mestiere di famiglia non sarebbe stato poi una pessima scelta, anzi. Sapevo che non avrei mai potuto ripercorrere le orme di mio nonno, né tanto meno quelle di mio padre, improvvisandomi a quasi trent’anni artigiano, però avrei potuto trasformare quella piccola bottega di famiglia in un’impresa moderna, sdoganandola dal provincialismo e svincolandola dai retaggi storici che la stavano soffocando.
 
Ma prima di prendere qualsiasi decisione decisi di toccare con mano quali fossero i miei competitor, cosa richiedessero i miei costumer
e quali fossero le opportunità offerte dal mercato nazionale e internazionale. Così decisi di fare un viaggio in Europa confrontando le mie intuizioni con l’operatività che possedevano altre aziende del settore. Al mio ritorno affrontai la situazione con mio padre tracciando il futuro di questa azienda e costruendo un nuovo capannone.

 
 


In città tutti ci presero per matti. L’opinione generale della gente aveva già decretato la morte dell’attività. Continuavano a ripetermi: “Ma che fate, siete pazzi, non c’è più mercato”. Come puoi capire non detti ascolto a quegli iettatori e confidando sulle idee, andai avanti per la mia strada. Erano tante le trasformazioni da attuare, visto che la bottega aveva mantenuto inalterato non solo il processo lavorativo artigianale, ma anche la concezione del lavoro che era obsoleta e stantia.
 
Era necessario modificare il modus operandi e gli stili di vita che si erano incancreniti nel sistema produttivo. Per essere competitivi sul mercato era necessario diminuire i costi introducendo dei macchinari al fine di ottimizzare il processo produttivo che era ancora tutto svolto a mano, con la mannara, lo sciasso e tutti gli altri strumenti tradizionali.
 
Innovare era il mio motto e proprio questo faceva paura e alzava barriere e resistenze fra chi rappresentava il passato e chi il futuro, innescando meccanismi di scontro generazionali fra me e mio padre, che tutte le volte ripeteva che “una macchina non può fare il lavoro meglio di me”.
 
Lo so anch’io, gli ripetevo, che nessuna macchina potrà mai realizzare una doga perfetta se il legno inserito al suo interno presenta delle imperfezioni o, ancora peggio, se è un legno di bassa qualità, ma so che è anche vero che, se programmata bene, riesce a fare un lavoro preciso e con uno standard qualitativo elevato in tempi brevi. Anche mio padre, oggi, ha compreso tutto questo ed è meno restio di un tempo a utilizzarle. Così si è trasformata questa azienda puntando sulla qualità figlia della tradizione e dell’esperienza del mastro bottaio e di quella tecnologia robotica con la quale tendo alla “perfezione”.
 
Far comprendere quali fossero gli standard qualitativi richiesti dal mercato globale richiese altro tempo e un’opera profonda di convincimento rispetto a tutto ciò che è rappresentato da quel passato in cui l’importante era concludere la giornata di lavoro, avendo prodotto un numero sufficiente di botti che consentisse un dignitoso sostentamento.
 
A me non interessa il numero delle botti realizzate in una giornata, la mia premura è quella che ognuna sia perfetta e non criticabile dal committente. Per esperienza so che “la velocità” porta sempre all’errore il quale spalanca le porte a una sicura perdita di tempo. È per questo che mantengo un controllo diretto su tutta la filiera produttiva a partire proprio dalla scelta del legno da utilizzare.
 
Ogni tanto scherzo con mio padre, dicendogli “siti cosa di sciassu e marteddru”. Ormai è assodato che non vuole e non può cambiare e io non insisto più. Ho compreso che è giusto che lui rimanga ancorato al suo mondo, a quel mastro bottaio di un tempo in cui, giovane e forte, ha costruito la forte dedizione al lavoro che ancora oggi lo contraddistingue e lo fa apparire ai miei occhi come una vera e propria “macchina da guerra”, che si alimenta da più di sessant’anni con una grande passione. Lo ammiro per ciò che ha fatto, e a distanza di anni, pur avendo avuto visioni diverse e prospettive divergenti su molte cose, riconosco che il nostro apporto in azienda è complementare. Lui è il mastro bottaio, la tradizione, la memoria, l’artigiano, l’artifex, il demiurgo libero, io invece l’imprenditore, l’innovatore, il trasformista, il tecnologico, il globalizzato che crede ancora di più che vi sia un futuro per questa azienda.
 
Un domani nel quale crede anche mio padre, soprattutto ora che vede circolare in azienda i mie figli con i quali trascorre ore a illustrare parte del procedimento produttivo, menzionando le antiche tecniche o facendo riferimento a piccoli aneddoti della sua infanzia, cosa che con me non ha mai fatto.
 
Lo osservo e sorrido teneramente, pur sapendo che tutto ciò non potrebbe aver nessun significato, né marcare il futuro dei miei figli dai quali non mi aspetto niente: come ho fatto io vorrei che anche loro facessero le proprie scelte, restando liberi di divenire o non divenire dei mastri vuttari.
 
Li Causi. Gli ultimi bottai di Sicilia
 
 
"Se si escludono

istanti prodigiosi e singoli che il destino ci può donare,

l’amare il proprio lavoro, che purtroppo è privilegio di pochi,

costituisce la migliore approssimazione concreta alla felicità sulla terra.
 
Ma questa è una verità che molti non conoscono"
 
Primo Levi, La chiave a stella, 1978